Progetto Uomo qui e ora – 19 Agosto
Viviamolo insieme.
“Qui insieme, una persona può, alla fine,
manifestarsi chiaramente a sé stessa,
non come il gigante dei suoi sogni
né il nano delle sue paure”.
Andiamo per montagne. Passo Cereda.
Molti anni fa. Al rifugio, arriva un grido:
“Sulle rocce che danno sul Piz Sagron,
un ragazzo s’è schiantato, scivolato
dal sentiero, dato per morto da chi
era con lui. Maledetto ferragosto!”.
Il vicecapo del Soccorso Alpino
dice che non c’è fretta, ma chiede,
per subito – sono le 13 – se quattro ragazzi
si prestano a portare zaini con cibo
ai soccorritori, in marcia dalle 10,
e prelevati dal lavoro, senza aver preso nulla,
neanche acqua, attrezzature sul gippone,
che si vede su in alto, vicino alle rocce.
Tre ragazzi di terza media, con me,
appassionati di montagna, si offrono.
Consegna: “state sempre sul sentiero,
salite finché sentirete le voci.
Verrei con voi, ma devo star qui per la radio”.
Partiamo alla grande, come razzi.
Oltre il gippone, su, in mezzo alle rocce,
poi nebbia, fastidiosa, orrenda, da nausea.
Incrociamo altri due soccorritori,
saliti per altra strada, a dar man forte
“Che facciamo?”. Risposta secca “Seguiteci”.
Col fiatone, dietro. Ma ecco le voci.
Gli otto soccorritori si sono disposti,
a ventaglio a monte del sentiero.
Non si vede nulla, oltre i dieci metri.
Procedono a voce. Poi un urlo “è qua!”.
Il corpo è individuato, appoggiato a ridosso
di un grosso cespuglio fiorito di rododendri.
I due arrivati con noi, afferrano la portantina,
salgono e con l’aiuto di altri due ricongiunti,
vi rotolano sopra il corpo, pancia sotto,
coprono la faccia sfregiata con un fazzoletto
alpino tolto dal collo. Si caricano il tutto.
Oltre 20 minuti per arrivare al sentiero.
Portantina a terra e corpo fermato meglio.
Azzardo: “Abbiamo qui del cibo per voi”.
Il capo soccorso: “No, fuori da questa
nebbia di merda, tra poco può piovere”.
Fila di bestemmie. I tre ragazzi si caricano
anche di corde e moschettoni dei soccorritori.
A portare il corpo, solo due per volta,
scelti per altezza, per armonizzare il peso,
liberi da tutto, mani sulle stanghe,
cinghia sulle spalle, slavati da sudore e nebbia.
Cambio ogni 100 metri, e due a monte,
coi cordini, a tenere in sicurezza i portatori.
Perdita d’equilibrio, uguale: altri due morti.
Finalmente, girato una specie di passo, in salita,
ecco uno spiazzo erboso e aria spazza nebbia.
“A terra, adesso mangiamo. Attorno a lui.
Lo facciamo in suo onore. E stia con Dio”.
Il capo, talmente esaurito dalla fame,
afferra panino e soppressa tremando,
dopo aver ingoiato acqua a tracanna.
Mangiano in totale silenzio. Pensieri ignoti.
Adesso anche la radio, gracchiante, collega.
“Servono ancora due ore e più. Riposiamo un po’”.
Mezz’ora di pausa, stesi attorno al corpo,
in attesa che circoli la forza del cibo.
Dopo le 17 siamo al gippone.
Il medico constata. La realtà è quella.
“Ragazzi, siete stati meravigliosi,
dice il capo, diventati adulti di colpo.
Vi prego, attenti alla montagna. Non perdona”.
Nella notte, a letto, i tre mi chiamano.
“Non riusciamo a dormire, male dappertutto”.
“Normale. Non riesco a dormire neppure io.
Sento i piedi del morto spingere sulle reni.
Fatica muscolare, paura e dolore. Come voi”.
Solo la notte successiva dormiamo a fondo.
Durante il giorno tutti a richiedere
il racconto della maledetta storia.
Alla fine, basta!
La montagna non ammette “nani e giganti”.
Ho ripreso il racconto, per chi va tra i monti.
Lo dedico a uno dei tre, Corrado, sensibile alla vita,
divenuto scalatore, espertissimo.
Caduto pure lui, in croda, per incidente,
poco oltre i trent’anni d’età.
Il giovane raccolto a Cereda ne aveva 19,
alto un metro e ottantacinque,
peso oltre novanta chili,
studente universitario modello.
Montagna e morte, princìpi di realtà,
giganti e nani non possono barare.
Gigetto