Il bimbo, ben informato, con mascherina – 7 anni – papà accanto, arriva in piazza per andare al mercato delle verdure, dove nota subito un gruppetto di bimbe e bimbi come lui. Appena può incrociare lo sguardo, prende lo slancio e va loro incontro.
Sei sette passi, si ferma di botto. Guarda i bambini di fronte in crocchio e molto vicini, poi alza gli occhi al padre. Postura del volto e occhi interrogativi.
Domande implicite: posso andare da loro? Pare di no. Non si può toccarsi e stare vicini, proibito. Però loro si toccano e sono vicini, pare di sì, possibile. Papà, mi dici cosa fare?
Il padre guarda il suo bimbo, preso in totale contropiede dall’arresto e dallo sguardo del figlio. S’irrigidisce pure lui, toglie lo sguardo dal crocchio e dal figlio e dirige lo sguardo al supermercato. Non una parola. Prende per il braccio il bimbo e lo conduce verso le verdure. Il bimbo incupisce di brutto e cammina svogliato, tirando i piedi.
Osservo questo a qualche metro di distanza, nella piazza elegante, e mi dico: “Ecco un adulto spiazzato, confuso, incapace di affrontare il bisogno di relazione, d’incontro e di gioia per il proprio bimbo. Bisogno che nulla ha a che vedere con la pandemia, ma messo in forse dalle sue regole”.
Nessun giudizio. Mi attraversa un pieno di comprensione e condivisione verso quest’uomo prestante nel fisico, 40/45 anni, in piazza a metà mattina, per far la spesa con il suo bimbo accanto. Il lavoro bloccato, chiuso in casa, forse la moglie quale unica risorsa per l’economia familiare, strizzato dalle regole pandemiche ben trasmesse al figlio, tanto da causargli il trauma di un dubbio su un desiderio più che possibile, necessario. E nel dubbio c’è caduto lui stesso.
L’adulto abituatosi a una vita frenetica, alla ricerca di soldi per attorniarsi di cose effimere, alle lotte concorrenziali per il successo, poi fatto di superficialità e apparenza, alla velocità degli spostamenti e delle relazioni sempre più finalizzate solo a sé stessi, individualista anche se lavoratore eroico e super occupato…
Stop! Costretto a fare i conti con sé, ad ascoltare ancora sé stesso, ma stavolta nel profondo, perché finito a sbattere contro il muro. Quello della vita che cambia di brutto, resa fragilissima causa un esserino qualsiasi, che sbanca da terremoto le sicurezze scientifiche, mette a terra gli aerei e ferma al porto le supernavi, chiude fabbriche e servizi turistici mondiali e oscura il futuro con il rischio …morte. Non solo gli anziani sono finiti in polvere per coronavirus.
La superficialità ferita a morte ha spalancato un vuoto, percepito e affrontato come un baratro. Invece è occasione di crisi, rischio calato di fianco e invitante al discernimento e andare nel proprio profondo.
Gli adulti ora costretti nell’angolo più sconosciuto del cuore, dove si riapre un nuovo mondo se solo ci si gira per guardare all’apertura, invece di guardare al buco dell’imbuto. Cuore ferito che sanguina ma aperto a nuove regole d’amore, se accoglie senza coperture mentali la sofferenza che serpeggia pubblicamente.
Il vuoto, enorme spazio da riempire, di dimensioni infinite nell’universo come nel cielo dell’anima, invece di affascinare – occasione imperdibile – miete ansia e terrore, vertigine che trascina dentro pure i piccoli che invece cercano riferimento e senso.
Di conseguenza, come adulti, non riusciamo a guidare i nostri figli, i nostri ragazzi e giovani, in questo percorso evolutivo imposto senza riguardo da un esserino invisibile. Quest’esserino invisibile, sfruttatore e succhiatore di cellule vive, può starci tutto nel vuoto, se il vuoto si riempire di relazioni consapevoli e responsabili. Cercate nel silenzio e nella ferita del sé. Per sé stessi e il mondo.
“Piccolo mio, corri. Ti accompagno là, in rigida osservanza delle regole a te note, tra i tuoi piccoli amici, che diventano miei. Parla, grida, sorridi e fai festa con gli occhi. La distanza, il vuoto, può riempirsi d’altro. Le verdure possono aspettare qualche minuto”.
Gigetto